Testata: Quattroruote.
Ricordo di un campione
Schietto e sincero, disponibile, ma anche pronto a fare polemica all’occasione. Basetta folta e baffo malandrino, a cornice di un sorriso che raramente mancava sulla sua bocca. Sono queste le immagini di Clay Regazzoni che ci portiamo dentro. Nitide, ancora oggi, nonostante siano già passati dieci anni da quella giornata in cui – mentre guidava, in autostrada – un malore ha fermato per sempre la sua lunga corsa. E solo quello, in effetti, poteva riuscire a bloccare il suo impetuoso essere. Qualcosa che non era riuscito neanche al botto di Long Beach, che pur lo aveva costretto a vivere su una sedia a rotelle. Un mix di generosità e talento, diventati oggi un ricordo nei cuori di tanti appassionati.
Gli inizi. Gian Claudio Regazzoni è per tutti, semplicemente, Clay. Inizia a correre in età piuttosto avanzata rispetto a gran parte dei suoi colleghi dell’epoca, partecipando alle prime gare quando di anni ne ha 24. In Formula 3 conosce Luciano Pederzani, patron della Tecno, con cui inizia la sua scalata verso la Formula 1, dove lega il proprio destino a quello della Ferrari. Di lui, il Drake scriveva: “Viveur danseur e pilota a tempo perso”, proprio per la sua immensa passione per la vita fuori dalle piste. Tanto veloce e tenace in pista, quanto ironico e piacevole fuori dall’abitacolo. Conquista la prima vittoria in una delle edizioni più folli del Gran Premio d’Italia, quella del 1970, a Monza. Una vittoria che, con la tuta rossa addosso, lo fa entrare di diritto nel cuore dei tifosi del Cavallino. Nel frattempo resta con un piede in Formula 2, dove, con la Tecno, si porta a casa il titolo continentale del ’70.
Anni difficili. La Ferrari 312 B2 non è competitiva come si sperava e le soddisfazioni della stagione ’72 sono magre. Per fortuna, Clay appaga la sua voglia di vittoria correndo con le vetture Sport di Maranello, che dominano il Mondiale Marche. Dopo una parentesi alla BRM nel ’73, Regazzoni torna a correre in F.1 con la Ferrari, giocandosi la più grande chance della propria carriera: il Mondiale si decide all’ultima gara e Clay paga un’improvvisa, quanto strana perdita di competitività della sua Rossa che gli fa perdere il titolo, a favore del brasiliano Fittipaldi. Vorrebbe riprovarci l’anno successivo, ma deve fare i conti con l’ingombrante compagno di squadra – Niki Lauda – che proprio lui, qualche anno prima, aveva raccomandato al Commendatore. L’ultimo acuto con il Cavallino Rampante arriva nell’ormai celebre mondiale del ’76, al Gran Premio di Usa Ovest. Il rapporto con la Ferrari, però, è sempre più incrinato e Clay decide di lasciare l’Italia, passando prima alla Ensign e poi alla Shadow, per due stagioni da dimenticare. Nel ’79 si accorda con la Williams, alla quale regala la prima vittoria in Formula 1 (il GP d’Inghilterra), ricevendo poi un trattamento discutibile: lasciato a piedi da Sir Frank, deve tornare alla Ensign.
Una carriera stroncata. Nel 1980, la corsa di Regazzoni si interrompe al cinquantunesimo giro del GP Usa-Ovest, a Long Beach: il pedale del freno della sua Ensign si rompe, lasciandolo in balia di un missile lanciato a 250 km/h orari verso una pila di gomme, dove la sua vettura si incaglia dopo un gran botto. Un impatto terribile, che fa perdere a Clay l’uso delle gambe, costringendolo su una sedia a rotelle. A nulla valgono i ripetuti interventi chirurgici ai quali si sottopone.
La vita dopo l’incidente. Chiunque, al suo posto, probabilmente si sarebbe perso d’animo. Clay, invece, non si arrende, anzi, si impegna per quelli ancora meno fortunati di lui. Regazzoni torna a correre su vetture con comandi al volante, arrivando a disputare anche gare massacranti, come la Parigi-Dakar a bordo dei mastodontici camion Tatra; pochi anni più tardi, dà vita alla Fisaps, la Federazione italiana sportiva automobilismo patentati speciali, per fare in modo che anche i piloti con disabilità siano ammessi alle gare automobilistiche, oltre al Club “Clay Regazzoni Onlus – Aiutiamo la Paraplegia”. Oggi ci resta il ricordo di un personaggio straordinario che, con il suo modo d’essere, ci ha insegnato ad amare la vita. D.R.