Clay Regazzoni

Testata:  L’Orologio.

Diverse visioni del tempo

La vita riserva momenti belli ed altri brutti, spesso difficili da superare. Ma ogni attimo va vissuto nel migliore dei modi perché così possiamo vincere ogni sfida che la vita stessa ci propone”. “Rispettato e temuto dagli avversari, il suo temperamento di gara era tra i più audaci.”. Così Enzo Ferrari ha descritto Clay Regazzoni, grande campione di Formula Uno, nel suo libro “Piloti, che gente”. Svizzero di nascita, Regazzoni è molto amato nel nostro Paese visto che i suoi successi più importanti li ha ottenuti con l’italiana Ferrari, dopo aver esordito in Formula Uno, nel 1970, al Gran Premio d’Italia a Monza, al volante della Rossa di Maranello, ottenendo una grandissima vittoria. Passato in seguito alla Williams e alla Ensign, nel 1980 un grave incidente sul circuito di Long Beach ha messo fine alla sua carriera in Formula Uno. Da allora però, nonostante la sedia a rotelle, non ha mai abbandonato il mondo dell’automobilismo, continuando a gareggiare e battendosi a favore dei paraplegici. È anche autore di due libri, “È questione di cuore” (vincitore del Premio letterario del Coni e del Premio Bancarella) e “E la corsa continua”. di Simonetta Suzzi Che significato dà al tempo un grande campione di Formula Uno come lei? Il tempo è prezioso. Per me non è mai sufficiente, passa troppo velocemente. Quando avevo vent’anni c’era più tempo per fare mille cose, invece adesso non riesco a fare tutto a causa dei tanti impegni: faccio il pilota per diletto – non è un’attività – ma sono preso da innumerevoli sollecitazioni e ci metto più tempo a fare le cose rispetto a prima. Penso che il tempo che “sprechiamo” di notte andrebbe recuperato. Chi è capace di dormire un’ora soltanto in pratica è come se vivesse due volte. Nelle gare anche un centesimo di secondo ha un’importanza fondamentale. Una corsa è una continua lotta contro il tempo? Più che contro il tempo, è una lotta continua contro gli avversari. È la loro pressione che dà il tempo e il ritmo alla gara. Il tempo è già stabilito: bisogna partire e arrivare il prima possibile. Questo accade nello sport, invece nella vita noi lottiamo più che con il tempo in sé, contro la burocrazia dei Paesi poco civili – e l’Italia è uno di questi – dove si perde un’infinità di tempo a causa delle farragini burocratiche che creano tantissime difficoltà per superare ostacoli e barriere. Quarant’anni fa si viveva meglio; io poi sono Svizzero e lì le regole sono molto più semplici. Il resto sono solo complicazioni. Nella mia condizione di “disabile”, inoltre, questa situazione è ancora più accentuata. Quali sono le sensazioni che si provano a bordo di un bolide in corsa? Sensazioni particolarmente forti si provano soprattutto all’inizio della carriera, quando si sale su una monoposto da competizione, su una macchina che può viaggiare a 400 chilometri all’ora. Poi negli anni diventa un mestiere e quindi anche le emozioni diminuiscono. Oggi poi le vetture moderne sono talmente piene di tecnologia che non si avvertono più queste sensazioni: i piloti ad esempio non sanno quando vanno forte o quando vanno piano, perché la tecnologia annulla tutte le percezioni. Penso che solo ai “massimi livelli, come ad esempio per chi va nello spazio, si possano provare emozioni molto forti. Io, guidando le macchine moderne, di emozioni non ne provo più. Quando invece salto sulla mia Ferrari del 1968 le avverto ancora, perché per ogni cosa devo far lavorare il mio cervello. I piloti attuali non hanno sensazioni da raccontare; negli anni ’70, invece, quando ho iniziato, l’emozione era grande perché c’erano tante cose da fare sulla macchina: innanzitutto la sicurezza; qualsiasi cosa succedesse, un incidente o una rottura, era molto pericoloso, quindi c’era più rispetto del circuito e del tracciato, si esaltavano le differenze e i valori erano più elevati. Oggi dire chi è il numero uno e chi è l’ultimo è molto difficile, perché la tecnologia ha appiattito tutto e solo chi ha il mezzo migliore vince e emerge. L’importanza del fattore umano, se ai tempi di Nuvolari era l’80%, oggi è meno del 20. Nel 1970, anno del suo esordio in Formula Uno al volante della Ferrari, ha ottenuto una clamorosa vittoria nel Gran Premio d’Italia a Monza. Cosa ricorda di quel momento? È stata un’emozione particolare e importante. Io sono nato a Lugano, che si trova a settanta chilometri da Monza, quindi ero praticamente a casa mia. La Ferrari era da dieci anni che non vinceva a Monza e io ero al quarto/quinto Gran Premio: ero un debuttante, malgrado avessi già trent’anni. È stata una vittoria stupenda con l’invasione della pista, l’abbraccio della gente… Sono cose indimenticabili e purtroppo, come dicevo prima, oggi i piloti non le provano più, perché ormai non sono più a contatto diretto con il pubblico. Fanno persino fatica ad andare sul podio a ritirare i trofei, tanto che hanno dovuto imporre delle regole perché appena finivano scappavano a casa. Sono cose stupende che ti creano sensazioni magnifiche. Adesso poi nello sport c’è troppa pressione mediatica e molti lo seguono un po’ per questo motivo più che per vera passione e conoscenza. Quindi è molto cambiato nel tempo il mondo della Formula Uno? Tantissimo. Io mi ricordo quando ero ragazzino, quando andavo a Monza a vedere il Gran Premio o le altre gare, si poteva circolare in mezzo ai meccanici, si vedevano lavorare i piloti e si era più a contatto con le vetture. Nel mio album fotografico di quegli anni ho una foto seduto sulla ruota di una Ferrari, nel 1961, con un giovane ingegnere della Casa e con l’allora campione del mondo alle mie spalle. Sono cose improponibili oggi. Purtroppo questo allontana un po’ la gente. È diventato sport troppo mediatico e poi trasmesso male, perché per comunicare certe cose ci vogliono persone di esperienza e di fede sportiva: se un cronista non ha la patente, non sa come si guida una macchina o non ha mai visto una corsa da vicino, non può trasmettere le emozioni al pubblico. Mi dispiace che parlo solo in negativo, perché io sono una persona positiva nella vita, ma questo è quello che propone oggi il mondo. Mi capita spesso di parlare con i giovani e li trovo confusi e indottrinati da quello che vedono in televisione e da quello che leggono sui giornali, che all’80% non rispettano la verità. Lei è sicuramente un esempio positivo: ha saputo affrontare il suo incidente e ha messo la sua esperienza al servizio dei disabili, fondando ad esempio il Club “Clay Regazzoni Onlus” – Aiutiamo la Paraplegia. Come è nata l’idea? Il Club è nato perché volevo promuovere delle iniziative benefiche. Faccio parte di due grosse associazioni mondiali per la ricerca, il mese scorso ho partecipato a Telethon. Però non riesco a capire tutti questi soldi che vengono raccolti in realtà dove vadano a finire, perché effettivamente non ci viene mai spiegato l’utilizzo preciso che ne fanno. Ho visto delle cose vergognose (ma poi gli scandali che ci sono li conosciamo tuttiâ€?). Perciò ho pensato di fondare questa associazione. Non abbiamo dei grossi capitali e non riusciamo a raccogliere miliardi, ma i fondi che otteniamo li devolviamo tutti alla ricerca. Questa associazione è nata più che altro come una cosa tra amici. Ci ritroviamo una volta all’anno e cerchiamo di aiutare un po’ tutti. Inizialmente l’associazione era sorta a favore del centro di Uroparaplegia dell’Ospedale di Magenta, diretto allora dal Prof. Zanollo, un urologo che cercava di alleviare i problemi dei disabili, ma che non aveva fondi sufficienti per le attrezzature. Poi la cosa si è sviluppata e il centro si è spostato al Niguarda di Milano: con quei pochi soldi che abbiamo inviato siamo riusciti a realizzare un’unità spinale con sufficienti macchinari. Io mi confronto con la realtà e mi chiedo sempre dove vadano a finire tutti quei miliardi che si raccolgono per beneficenza. Proprio un mese fa ho letto su un giornale che l’Italia è l’ultimo Paese al mondo in fatto di donazioni. Ma come è possibile, se ogni giorno sentiamo di tantissime iniziative benefiche, di tutte le varie “Partite del cuore” e via dicendo? Allora mi vengono dei forti dubbi, perché manca la trasparenza e alla ricerca alla fine forse arrivano solo le briciole. La nascita del Team Clay Regazzoni, composto da piloti disabili e normodotati, è un tentativo di superare le penalizzazioni che subiscono i portatori di handicap. Quali sono al riguardo i problemi attuali in Italia? Più che il Team, è la F.I.S.A.P.S. (Federazione Italiana Sportiva Automobilismo Patenti Speciali, che promuove l’attività automobilistica e kartistica tra i disabili, n.d.r.), che si è occupata di questo. Io sono nato al confine con l’Italia, sono cresciuto in Svizzera. Anche dopo il mio incidente, nel 1980, guido ancora con la patente che ho preso a diciotto anni. Problemi non ne ho incontrati: sono tornato a gareggiare, grazie alle regole della Federazione Mondiale sull’attività sportiva dei disabili e a un’azienda di Roma, la Guidosimplex, che ha modificato la mia Ferrari adattandola nei comandi. Poi ho scoperto la situazione italiana, che era molto diversa: i disabili avevano la patente limitata e la loro auto veniva registrata sulla patente stessa, limitando la guida solo al disabile ed escludendo anche il resto della famiglia, che quindi doveva avere almeno due macchine. L’attività sportiva poi era preclusa: una cosa assurda! L’automobile si guida con il cervello, prima ancora che con le mani e con i piedi. Sono andato in prima persona al Ministero dei Trasporti: sembravo un extraterrestre per come mi guardavano. Poi è nata questa Federazione a favore dei disabili, e in pochi anni abbiamo liberalizzato tutto. Siamo riusciti a far capire alla gente che le macchine si guidano con la testa. In seguito è nata la scuola con i corsi di pilotaggio e vengono organizzate gare nazionali e internazionali. Certo, qualche difficoltà si incontra ancora, ma le incontro io stesso, ad esempio, quando viaggio sugli aerei: addirittura l’Alitalia, fino a qualche tempo fa, non prendeva a bordo i disabili per i voli superiori a tre ore (è successo anche a me cinque anni fa!). Però ora molte barriere sono state abbattute e l’attività sportiva dei disabili adesso finalmente è legalizzata. Ma la barriera più grande è nel pensiero, nella cultura della gente. E se non si supera quella! Come è nata la sua passione per le corse? Direi che era innata. Mio padre gestiva una carrozzeria a Mendrisio e io a tredici anni guidavo già la macchina. Avevo come una predisposizione. Da ragazzo, con gli amici, andavamo a correre con la stessa macchina che usavamo per andare al lavoro. Allo sport però sono arrivato tardi, perché in Svizzera le gare automobilistiche sono proibite dopo l’incidente di Le Mans nel ’54. Dopo aver preso la patente, a ventun’anni circa, ho iniziato a gareggiare, sono stato contattato per provare varie macchine finché un giorno mi ha chiamato la Ferrari. La passione è rimasta, come dimostrano anche le competizioni con auto storiche. Sì, sicuramente. L’auto per me è il mezzo che mi dà più libertà, perché riesco a sentirmi indipendente. In macchina non mi stanco mai, riesco anche a fare tranquillamente 2.000 chilometri al giorno…

 

 

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